I fischi del Maradona decretano la fine di un ciclo e fotografano il momento del Napoli. Un disastro che comincia a giugno e che persevera.
Napoli, i fischi accompagnano un’opera di oscenità. È finito un ciclo
I fischi, assordanti e rabbiosi: è questa la colonna sonora del Napoli. La colonna sonora di un film horror, inquietante ma a tratti deprimente. Eppure, avrebbe dovuto essere la stagione della conferma, dell’orgoglio. Dopo trentatré lunghissimi anni, di attesa e delusioni, il Napoli scendeva in campo e lo faceva mostrando nuovamente la toppa dei campioni d’Italia.
Gli azzurri, invece, scendono in campo (eufemismo tecnico) per dare conferma di altro. Non del trionfo, ma di quanto labile e sfuggente sia. Per dare dimostrazione, anche col Frosinone, che l’illusione dura un attimo, ed è il percorso a scrivere il futuro.
Anche contro i ciociari la squadra di Calzona si conferma una trottola impazzita, pronta a schiantarsi in un muro di facili entusiasmi. La goleada brianzola aveva lasciato auspici di ripresa in qualcuno che, tuttavia, ignorava il fatto che fossimo alla giornata numero trentadue. Calcoli, calendari a confronto e ipotesi. E invece, anche stavolta, come le precedenti trentuno giornate, il Napoli disfà dopo aver fatto. L’illusione è sfuggente, dura un attimo, e il percorso aveva detto tutt’altro.
Napoli, i fischi accompagnano un’opera di oscenità. È finito un ciclo
Come a Cagliari, come col Torino o l’Union Berlino, il Napoli crolla come un castello di carte dinnanzi ai colpi nemmeno troppo convinti delle avversarie. Come in tante altre occasioni, la squadra crea, produce e riesce a capitalizzare, ma si conferma inerme e fragile. Una voragine costante, trafitta dall’incostanza e da un mare di ambizioni e convinzioni andate perdute.
Perché illudersi è naturale, nonostante il percorso di questa squadra dicesse altro. Lo ripetiamo, da un gruppo mai capace di conquistare tre vittorie consecutive, non ci si poteva aspettare una rimonta europea nelle ultime giornate. Una impresa degna di eroi che non sono più tali, e che per giunta avrebbe richiesto la compartecipazione anche delle rivali. Il percorso del Napoli era tracciato, e intendeva presagire il presente. Eppure, il senso di sedersi la domenica dinanzi ad uno schermo, ed esultare, è proprio quello di sperare.
La speranza, che il giusto incastro di risultati e miraggi aveva assistito, si era presentata all’ultimo, fatidico – e fatale – appuntamento tra le mura del Maradona. Anche l’ultimo lascito di fede, però, trafigge quella voragine.
Gli uomini di Di Francesco si aggiungono alla lunga lista di squadre capaci (mica difficile) di violare il Maradona, e di fare bottino prezioso.
Il gol lo cerchiamo, e lo troviamo a fatica. Victor, come spesso accaduto in questa stagione, non è in partita. Tra il nigeriano e Piotr il Napoli ha di che rammaricarsi. Però Politano sa come contraddire i malumori generalizzati di tutta una piazza. La rete del vantaggio fa il pari con la prodezza di Monza, e qualcuno comincia persino a crederci. Bologna e Roma in casa, tre punti col Frosinone e si può sperare che una tra Atalanta e Roma salga sul tetto d’Europa. Difficile, difficilissimo, ma non impossibile.
Già a fine primo tempo, però, il percorso dà segnali di presagi consueti. Rrahmani si allena nell’interpretazione del difensore ingenuo e pericoloso, e atterra l’avversario. Il penalty diviene occasione di riscatto per Meret. Alex vive un rapporto contraddittorio, difficile e ai limiti del sopportabile con la piazza. Tra verità ed iperbole, il peso da sopportare sulle proprie spalle è tanto. L’indiziato di ogni domenica, l’osservato speciale che diviene capro espiatorio. Alex domenica non era d’accordo, e para il rigore di Soulè. Almeno, non era d’accordo sino al 50′.
Cinque minuti dall’inizio del secondo tempo e i fantasmi di Empoli si materializzano, vividi. Come al Castellani, il Napoli si congeda da ogni contesa con un disastro autoprodotto. Scarico, non scarico, attendo e… uno a uno. La costruzione dal basso è operazione complessa, che richiede partecipazione di tutta la squadra, oltre che qualità tecniche del portiere. Agli azzurri manca tutto questo: un difensore che si faccia vedere, un centrocampista che si proponga, un portiere che non ripeta lo stesso, identico, disastro di Empoli.
La seconda rete è casuale, poi Rrahmani si conferma difensore ingenuo e pericoloso. È ingenuo sul rigore, pericoloso anche perché quando c’è un solo attaccante da marcare, non riesce. Il kosovaro si lascia sfuggire, ancora, la punta avversaria. Doppietta Cheddira, sogni infranti.
Ventitreesima rete subita in casa, al netto di ventidue gol realizzati. Questo, oltre all’ottavo posto e le quaranta reti subite in totale (peggiore difesa delle prime dieci) il dato che accompagna la stagione dei partenopei. Il manifesto di un crollo verticale per chi, con fatica e meriti, aveva risalito quella parete irta di ostacoli, sino al successo. I demeriti sono di tutti. Sul prato scendono i calciatori, che mai hanno saputo (o voluto) ingegnarsi nel minimo di applicazione e intensità che un tricolore – ma anche la dignità – avrebbe richiesto. Sugli allenatori se ne potrebbero dire diverse. La realtà è che quando le porte sono girevoli, le certezze sono blande. C’è chi ha programmato, o almeno avrebbe dovuto.
Il presidente, che nella calura afosa di inizio estate aveva assecondato istinti egocentrici e assolutistici. Tutti sono importanti e nessuno è indispensabile. La storia, o meglio, il percorso ha finito per decretare che è vero, nessuno è indispensabile, ma il singolo può essere deleterio. I fischi del Maradona sono la sigla finale dell’ultimo atto dell’opera Napoli. Un’opera di oscenità e chiacchiere. Le stesse a cui sarebbe meglio dare seguito con i fatti.
Bagnoli, Castellammare, i tredici campi, il mercato faraonico di gennaio e i contratti da rispettare. Evitiamo di perseverare e cominciamo dalle basi, dall’inizio, come si è soliti fare. Cominciamo ad escludere l’assolutismo del singolo, e ad affidarci all’importanza del gruppo. Direttore sportivo e allenatore, di valore e tutelati. E allora potremmo dire che i fischi abbiano accompagnato un capitolo già concluso. Per un ciclo che finisce, ne comincia un altro.
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Gennaro Albolino