Non accadeva da dodici anni che il Napoli facesse zero tiri nella porta avversaria, ed è invece quanto avvenuto nella gara contro la Lazio.
Zero tiri e rinuncia, con la Lazio il Napoli torna indietro di 12 anni
Zero tiri in porta. Non accadeva da dieci anni che il Napoli non calciasse mai in porta. Dodici anni di costruzione faticosa, tra insuccessi e soddisfazioni meritorie. Dodici anni di talenti, bomber, scommesse e programmazione. Più di una decade nella risalita verticale, affannosa, sino al successo dello scorso maggio. Dopo cocenti delusioni ed avventure in chiaroscuro, tra imprese sfiorate e piazzamenti deludenti, il Napoli tornava sul tetto d’Italia nel mese di maggio più bello da trentatré anni a questa parte.
Eppure, in soli sette mesi si è ritornati a dodici anni or sono. Pare essere tornati al punto di partenza. Lontani drasticamente da quanto lungamente inseguito e meticolosamente costruito. È questo quel che fa più male, che fa maggiore scalpore. La dissomiglianza drastica tra i due Napoli, quel solco profondo tra oggi e ieri, anche se ieri è così vicino.
Zero tiri e rinuncia, con la Lazio il Napoli torna indietro di 12 anni
“Abissale” canta Tananai, ed è quanto mai abissale il distacco tra questo Napoli e quello trionfante della passata stagione. Da una fotografia iconica e non troppo lontana di una squadra che, nella cornice del Mapei, era già pronta ad aggredire con famelico agonismo gli avversari alla battuta del calcio d’inizio, si è passati all’assetto stile Italia ’70 contro il Brasile ingiocabile del mondiale messicano. Dal pressing asfissiante sino alla prima costruzione avversaria, ad un rintanamento a tratti soporifero nella più totale rinuncia a qualsivoglia prerogativa di gioco. Si è parlato, tanto, delle variazioni tattiche del nuovo Napoli. Si è parlato – impropriamente – di difesa e contropiede. La verità è che gli azzurri, ad oggi, sono soltanto difesa. Non vi è traccia alcuna di contropiede, figurarsi del miraggio di un tiro in porta (uno soltanto in 192 minuti di gioco).
La New 3ra è una metamorfosi violenta nel provincialismo che pure si pensava esser stato messo nel cassetto dei ricordi del passato. Perché il Napoli degli ultimi mesi, tra infruttuosi tentativi di rincorrere il passato e la resa alla constatazione, è una squadra che non pare saper fare altro che difendersi. Nessuna traccia di costruzione, di manovra o di idee. Serrata protezione dell’area.
Un tuffo in una dimensione lontana (o forse più vicina che mai) che stona se comparata all’idea di Napoli che maturava a fine primavera scorsa. Non l’aspettativa del successo, ma la propensione al gioco e l’abitudine a contendere i punti su ogni campo e contro ogni avversario lasciavano auspici di un Napoli che potesse essere la creatura più simile possibile a quella fotografia del Mapei. Alle porte di questa primavera, invece, gli azzurri sono già a più di venti punti di distanza dalla capolista, meno ventisette dal parente più bello di sé stesso e con un mucchio di domande sempre in procinto di alimentare il dubbio di non riuscire mai a compiersi del tutto.
Certo, della gara dell’Olimpico – così come della final four di Supercoppa – vanno considerate tutte quelle incognite di campo (e non solo) che rendono proibitivo il lavoro del tecnico. La squadra è orfana del suo nove principe (anche se candidato ad un regno lontano) ormai da inizio anno, così come del suo centrocampista titolare. A ciò si aggiungono le noie fisiche, perduranti e non, di tanti, troppi. Natan, Cajuste, Olivera che, con gli squalificati Simeone e Kvaratskhelia, arricchivano la definizione di emergenza. È vero che era un Napoli decimato, violentato dalle avversità. Così come è vero che, contro Lazio e Inter, si doveva fare di necessità virtù. È anche vero, però, che la virtù di questa squadra non può essere la rinuncia totale, a priori, ai tre punti.
Il mercato ha fornito Mazzarri di innesti che potevano essere utili. Oltre Lindstrom, che si attende possa cominciare a calcare il prato con un minutaggio superiore ai dieci minuti, anche Ngonge avrebbe potuto essere l’arma in più a sostegno di Raspadori. A maggior ragione se l’intento (sempre che…) era quello del contropiede, oltre che della difesa a oltranza.
Il carattere peculiare delle emergenze è quello di giustificare misure straordinarie. Tuttavia, non è accettabile, per una squadra campione, dover ritenere emergenza la rinuncia totale alla conquista del successo. Non si può rinunciare ad offendere dal primo all’ultimo minuto di uno scontro diretto, pur potendo sfruttare calciatori come Politano, Raspadori, Ngonge, Lindstrom. Si è scelto Mazzarri per dare continuità, ma le necessità di oggi spingono a variazioni. Che le necessità, però, non cambino anche le prospettive. E questa è una responsabilità che non può – e non deve – sopportare soltanto chi ha scelto di guidare la barca sino al porto.
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