La sfida tra Napoli e Inter è la fotografia di tutta una stagione. Dopo il successo di pochi mesi or sono, è già tempo di ridimensionamento.
Napoli, con l’Inter l’emblema di una stagione: “vorrei ma non posso”
Sesta sconfitta su diciannove gare disponibili, quattro delle quali in campionato, tutte in casa. Diciassette gol subiti, peggiore difesa tra le prime dieci del campionato. Undici punti di distacco dalla vetta, quinto posto (in coabitazione con la Roma), un punto sui Viola, due sul Bologna. L’aggravante – ed è paradossale – è che sono i numeri che accompagnano la squadra campione d’Italia. Probabilmente, se nell’estate del 2022 ci avessero chiesto di pagare un anno privo di ambizioni e spettacolo in cambio di un tricolore, avremmo tutti firmati con il sangue. Oggi, però, la lucidità deve poter assistere ogni giudizio. La vera domanda non è, dunque, cosa avremmo fatto in passato. La domanda è: cosa avremmo potuto essere, oggi?
Il Napoli abdica per la difesa del titolo prima ancora che l’atmosfera natalizia possa pervadere la smania di ognuno. Al terzo giorno di dicembre si è già costretti a rivedere ogni aspirazione. È lo stesso capitano ad annunciarlo: “In questo momento, la distanza è ampia. Pensiamo alla prossima gara, senza guardare troppo in avanti. La sfida con la Juventus è uno scontro diretto”. Lo era anche lo scorso anno, a gennaio, quando ci si giocava la credibilità di candidata al successo finale.
Quella di venerdì, invece, non è nemmeno l’ultima spiaggia, bella che andata nella gelida domenica del Maradona. Allo Stadium, più che altro, sarà la partita sopravvivenza, augurandoci che non sia la prima di una lunga serie. Già, perché il Napoli – ed il suo proprietario – resta aggrappato ad una qualificazione Champions che rappresenta l’unico salvagente per conservare la dimensione acquisita negli anni, evitando più di un passo indietro (tecnico e finanziario).
A giugno, tra improbabili pronostici di dominio europeo, fantasticherie (ahinoi) su Conte, Luis Enrique & Co., telenovele di mercato (rimaste tali) e, soprattutto, previsioni di competitività a lungo termine, si costruivano le basi di quel che oggi si ritiene una delusione. O meglio, di costruito c’è ben poco. Mentre si salutavano protagonisti assoluti, ritenuti alla stregua di comparse tranquillamente intercambiabili, si decida di puntare su scommesse perse in partenza. Via Spalletti e dentro Garcia, via Giuntoli e… dopo un po’ (e non senza sofferenze), dentro Meluso. Via anche Kim, dentro – a ridosso di Ferragosto – un giovane Natan.
Una curiosa rivoluzione, una lampante deriva. Non si pretendeva la vittoria, quella non si può programmare. La competitività, la crescita, invece, sì. Le ambizioni si possono programmare, proprio come utili e plusvalenze.
Napoli, con l’Inter l’emblema di una stagione: “vorrei ma non posso”
Poi, c’è quel che è accaduto sul campo. La sfida del Maradona è una sceneggiatura già vista, incentrata costantemente sul “vorrei ma non posso”. Vorrei poter difendere di reparto, ma in questa stagione la retroguardia azzurra sembra essere allergica ai confini della propria area di rigore. La rete con cui l’Inter sblocca il match è il festival della passività, con la palla che passa da sinistra a destra, avanti e indietro. Vorrei recuperare, difendere alto, ma la difesa degli spazi non perviene. Il secondo gol conferma l’altro problema dei partenopei: il ripiegamento. Barella parte dalla propria metà campo e, dritto per dritto, si imbatte nei più ‘Beniteziani’ dei buchi centrali. Una voragine, l’ennesima, in cui i nerazzurri riesce anche ad esaltarsi in dribbling.
Sulla terza rete sarebbe il sottoscritto a voler dire qualcosa, ma non può. La gara, ormai, era terminata. Ciò che resterebbe oggetto di di critica è come sia potuta arrivare la palla a Thuram. Anche ieri, come mercoledì, ci sarebbe da interrogarsi sul primo dei difendenti, ma reiterare ogni settimana non si può.
Le tre reti dell’Inter, dunque, sono più che evitabili. È l’incosistenza perseverante di un reparto orfano dei suoi terzini sinistri, così come dell’affidabilità. Ogni azione avversaria – poco conta se a difesa schierata o no – è un brivido distinto. La paura di condersi, ancora, all’avversario, di prestare il fianco con nuova ed estrema facilità. Una paura che diviene, pericolosamente, consapevolezza.
Nelle quattro sconfitte casalinghe, tra le mura amiche (o nemiche, a questo punto), il Napoli ha subìto nove reti. Da non sottovalutare che ben sei di queste sono giunte nella ripresa. Anche contro l’Inter, infatti, è stato un Napoli a due facce. Nella ripresa una qualità ed un ritmo sicuramente superiori e che, forse, hanno facilitato l’illusione. Nel secondo tempo, il solito crollo. Anche questa è divenuta, non meno pericolosamente, una consuetudine. Un correttivo bisognerà porlo. Nessuna squadra ti regala un tempo. Soprattutto, le gare durano novanta minuti.
Nei secondi quarantacinque cala la qualità di una manovra che, a dire il vero, non riesce mai a convincere appieno. Che il Napoli non potesse viaggiare sulle ali dello spettacolo perpetuo era prevedibile. Tuttavia, non ci si aspettava nemmeno una costante difficoltà nel trovare soluzioni di gioco. Spesso, la manovra stagna sui portatori palla. Non ci sono alternative e, quando si presentano, la rapidità non assiste gli azzurri.
Certo, ci sarebbe da parlare degli episodi. Ciononostante, la sconfitta di ieri non è frutto delle decisioni arbitrali, per quanto errate possano essere. L’errore è macroscopico, in particolare sul fallo subìto da Osimhen. A maggior ragione se si concede un penalty alla Roma per una di amica pressoché simile. Ieri, però, è terminata zero a tre. Quando perdi zero a tre devi guardare altrove.
Anche nella qualità di gioco il Napoli vorrebbe, ma non può. Proprio come quanti, in questi mesi, avrebbero voluto assistere ad un moto d’orgoglio dei campioni nella difesa al titolo. Molti, in realtà, avrebbero voluto altro. Il mercato, le scelte e la condizione, però, non consentono di andare oltre. Le circostanze, il pantano tecnico ed emotivo delle ultime settimane, non permettono di volgere lo sguardo oltre agli obiettivi di un tempo, nonostante i recenti trascorsi di gloria. Eppure sarebbe bastato poco. Sarebbe bastato volerlo davvero.
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Gennaro Albolino