La finale raggiunta dagli azzurri al Mondiale U20 ci dice molto. Dalla forza delle idee a quella della fiducia, passando per il talento.
Cosa ci dice la finale raggiunta dagli azzurri nel Mondiale U20?
Un gol di Rodriguez all’86’ spezza i sogni di gloria azzurri. Nella finale di La Plata la maggiore prontezza degli uruguagi nega agli azzurrini il primo titolo di categoria. Una sconfitta di misura che non ridimensiona in nessun modo quanto raccolto nel Mondiale argentino. La prima finale di categoria non è roba di poco conto, né casuale. Non ci si può esimere da elogi che tengano conto della dimensione del risultato. Un traguardo storico e di cruciale importanza per il nostro movimento, ed a cui insegna, per l’ennesima volta, tante cose.
L’Italia di Nunziata ha raccolto gli onori della crotica. Un sistema di gioco che ha convinto tutti, e non potrebbe essere altrimenti. Un calcio che fa della palla e dei movimenti i veri protagonisti. Approccio aggressivo e sempre propositivo, di cui la verticalità è centrale. Fraseggio e controllo del campo, senza limitare la qualità (eccezionale) dei singoli. Il Mondiale ha dimostrato che anche nelle competizioni, per club e nazionali, portare avanti un’idea, coltivare una visione e perseverare nello sviluppo di gioco può portare ai risultati. Il calcio, quello giocato e della palla che viaggia, ben lontano dal mero tatticismo, può spianare la strada verso il successo.
Cosa ci dice la finale raggiunta dagli azzurri nel Mondiale U20?

La Nazionale Under 20 non era certo partita con i favori del pronostico per la campagna argentina. Un Mondiale che, come al solito, poteva presagire un successo verde-oro, o rivelarsi favorevole alla garanzia nigeriana. Gli azzurrini pagavano il peso dell’anonimato – non tutti, naturalmente – ed una confidenza col campo poco avvezza alla (vera) competitività. Il torneo Sub 20, dunque, è stato una rivelazione proprio a tal motivo. Paradosso vuole che a scoprire il talento – persino sublime, in alcuni casi – di molti azzurri fossero non soltanto critica e addetti stranieri, ma noi stessi. La finale al Maradona è una torta che, seppur priva di ciliegina, sbatte dinanzi a noi una verità grossa.
Sconosciuti a più, i ragazzi di Nunziata hanno urlato il loro talento non soltanto al mondo, ma all’Italia stessa. Casadei si è preso la scena, con la premiazione quel record di gol che lo pone (quasi) al pari di fenomeni come Saviola e Haaland, con il particolare d’essere centrocampista. Premiazione che ha visto il giusto riconoscimento anche per il portiere Desplanches. Anche Baldanzi, Prati e Ambrosino hanno rubato l’occhio.
La tournée sudamericana ci dice che no, non era come ce la raccontavano. L’italia non ha smesso di produrre talenti, il nostro calcio ne è anzi ricco quanto mai. Quel che apprendiamo dal ‘Mundial’, dunque, è la necessità che questi ragazzi richiedono. La necessità di poter acquisire confidenza con la massima serie. Calpestare prati importanti, fronteggiare avversari che possano garantire competitività. La necessità di poter vantare la fiducia che essi meritano. La fiducia nel talento, e nella qualità, ma che nel nostro calcio deve per forza fare rima con coraggio. In un sistema sempre più incline ai numeri, statistiche, centimetri e risultati (gli algoritmi sono l’ultima novità) la pazienza trova sempre meno spazio. La possibilità di sbagliare, il tempo per adeguarsi sono i presupposti essenziali. Pazienza e fiducia gli ingredienti fondamentali per affidarsi al futuro che, stavolta, avanza davvero.
Potremmo scriverne all’infinito, non cambierebbe molto. Spetta a chi di dovere cimentarsi nel concreto. Misure, provvedimenti ed iniziative che possano, praticamente e definitivamente, sconvolgere una triste desolazione del talento stagnante. Il futuro non aspetta, muore nella sua impazienza.
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Gennaro Albolino