Calcio e globalizzazione, il golpe al mondiale di culture lontane

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Un mondiale quanto mai sorprendente ha garantito svariate e fragorose débâcle. Che sia il segno della globalizzazione anche nel calcio? Quasi tutte le grandi hanno ceduto sotto i colpi del nuovo che avanza, tra chi è rimasto indietro e chi fatica a farci i conti.

Calcio e globalizzazione, il golpe al mondiale di culture lontane

È già tempo di bilanci, seppur parziali, per il mondiale qatariota. Ed anche in questa edizione è un resoconto che non si sottrae dalle perturbazioni di un calcio lontano. Nazionali apparentemente distanti da quel monopolistico epicentro calcistico di un tempo hanno, infatti, attentato ancora, come un golpe, ai (sempre più) fragili equilibri di forza di questo sport. Argentina, Francia, Brasile, Spagna, Germania e tutte le big hanno capitolato sotto i colpi di quei paesi condannati alla periferia del calcio. Sprezzanti della storia, le cosiddette ‘piccole’ hanno vinto gare insospettabili, forti – quasi sempre – di idee, innovazione e soprattutto futuro. Sconfitte che lacerano convinzioni decennali, e che minano certezze. E se in qualche caso hanno potuto significare episodici inciampi, per altri sono stati il marchio di sortite precoci. Vere e proprie picconate, potranno affermare i cronisti di un futuro non troppo lontano. Perché chissà che, colpo dopo colpo, non crolli anche quella parete spessa che preclude ai soliti (e) noti di volgere un attento sguardo al di là di quel muro. Cadute che, ormai, paiono tanto fragorose quanto frequenti, e che pertanto figurano manifestazioni sintomatiche. I segni dell’età del ‘ancien règime’ del calcio ed i suoi sintomi, brevemente analizzati in una cronaca mondiale orfana di emozioni azzurre.

Calcio e globalizzazione, il golpe al mondiale di culture lontane

Uno sport sempre sul filo dei nervi, come il calcio, non può prescindere da motivazione e concentrazione. È banalmente questo uno dei motivi che causano i tonfi strepitosi delle grandi. La maggior parte di essi si verifica in quelle circostanze che possono, apparentemente, favorire il fatidico ‘approccio morbido’. Le gare di un girone, infatti, insinuano una possibilità di recupero. La dinamica dei punti suggerisce l’implicita convinzione di poter riparare ad una sconfitta. Se, invece, il percorso è stato tanto ineccepibile da garantire il massimo dei punti nelle prime due giornate, la convenzione è quella di concedere campo alla panchina e alla quiete. Un metodo che si è rivelato alquanto infruttuoso in un mondiale ricco di sorprese, ma consueto nel radicamento di antiche abitudini. La notizia non è pertanto il calo mentale, quanto gli effetti che ora essa produce. Non pare più possibile concedersi rilassatezza né tantomeno calcoli. Di fronte vi sarà sempre un avversario in grado di mostrarsi pronto e soprattutto preparato. E la sconfitta diviene subito incubo che si materializza. Flessioni psicologiche che, dunque, possono tradursi in innocui insuccessi (come per il Brasile) o in accidentali secondi posti. Perché la mano sul fuoco per la Spagna ce la mettete, giusto?

Un calcio globalista

Da Bretton Woods, passando per la Reaganomics, sino ai giorni nostri è la globalizzazione il motore di un mondo senza barriera alcuna (o quasi). Con la visionaria aspirazione di un pianeta disseminato di occasioni di profitto, il mantra è stato quello della libera circolazione di merci, persone e know-how. Ed il calcio, seppur spesso ancorato ad anacronistici principi, non ha mancato di esserne coinvolto. Le idee viaggiano più veloci degli uomini, ed ancora meglio se non osteggiate. Allenatori, preparatori e direttori, in un mondo aperto e ricco nei suoi angoli, viaggiano lontano portando con sé il prezioso bagaglio di una antica tradizione calcistica. E così, il calcio ha saputo imparare lingue ed accenti di terre lontane. Un fútbol che ha smesso di essere una questione ‘genetica e culturale’, per divenire bensì materia di lavoro e programmazione. Con la diffusione dei migliori metodi ed idee, è oramai raro incappare nelle famose ‘squadre cuscinetto’, specialmente in una competizione internazionale. Ognuna delle partecipanti è infatti pronta a nascondere insidie e spiacevoli sorprese, contrastando l’aspettativa di una facile goleada. Senza alcuna considerazione per blasone o densità di popolazione (la Croazia insegna), ogni nazionale applica con successo organizzazione ed impostazioni di gioco innovative, schierando giovani talenti dai nomi esotici ma dalla resa sicura. Ed è così che sfide già assunte come vinte, si trasformano in trappole fatali. Appuntamenti col futuro con cui le grandi del passato (e del presente, certo) hanno impattato con conseguenze più o meno decisive, e che hanno costretto a fare i conti con la convinzione di immutabilità in un mondo in continua evoluzione.

Tra shock e addii

Disfatte tonanti che per questo hanno avuto lo spiacevole esito di veri e propri shock culturali e nazionali. La sconfitta all’esordio per l’Argentina rientra esattamente in questa casistica. I sudamericani sembravano subire un lutto sportivo intriso di ansie e timori, mentre si ritrovavano costretti a confrontarsi con una supremazia che appariva quanto mai fragile. Come detto, in un mondo globalizzato metodologie e conoscenze viaggiano lontano. E se qualcuno a Berlino ha potuto gustare un sushi prelibato, a Tokyo invece si preparava lo scherzo fatidico. I tedeschi non sono certamente ultimi nella programmazione, studio e coltivazione di gioco e talenti. Però non si aspettavano sicuramente di uscire per mano degli asiatici (continente particolarmente indigesto negli ultimi quattro anni). Il Giappone, come il Marocco contro il Belgio, ha saputo impadronirsi di idee distanti, ed ha offerto soluzioni di gioco e pianificazione efficaci. Evoluzione ed adattamento vincenti hanno permesso (e permettono) agli emisferi calcistici di guardare il centro da vicino, con la velata pretesa di ribaltarne la geografia.

Vecchia Italia

Non è un paese per vecchi recita il titolo di un celebre capolavoro cinematografico. L’Italia, invece, lo è. Lo stivale appare, in una considerazione puramente calcistica, del tutto allergico alla sferzata globalista e modernizzante che investe il resto del mondo. Come facilmente prevedibile, gli azzurri godono ormai di una riconosciuta abilità nel compimento di fallimenti ‘inaspettati’. Nella casistica nostrana possiamo fare francamente a meno di annoverare lo sciagurato ottavo di Corea 2002. Se è vero che il Trap ci avesse messo del suo, sprecando più tempo dietro a sale e acqua santa che al talento cristallino di futuri campioni, è del tutto inopinabile e catalizzante la prestazione di un Moreno del cui giudizio faremo a meno di scrivere. Ben più autentiche le imprese in Sudafrica e Brasile, senza nulla togliere ai decisivi spareggi contro Svezia e Macedonia del Nord. Difatti noi in Qatar non ci siamo. La nostra assenza ha origini lontane, e nella straordinaria caparbietà di aggrapparsi ad esse. Lontani, ahinoi, ben più che anni luce dalla programmazione e coltivazione di talenti (che stavolta non ha salvato nemmeno i più navigati tedeschi) già abitudinarie altrove; paghiamo l’incapacità ostinata di svincolarsi da un sistema che non offre più alcun vantaggio. L’assenza di strutture adeguate, di programmi dedicati ad una corretta formazione giovanile e di una filosofia calcistica progredita nella massima serie costituiscono il mix perfetto che ci permette di godere l’ennesimo mondiale dal divano di casa, senza le inutili ansie di parteciparvi.

Guai a rimanere fermi, il futuro corre veloce

In quanto a globalizzazione e modernità, invece, a Zurigo – sede della Fifa – sono attentissimi. È stabilito da tempo l’allargamento del Mondiale a 48 squadre, perché in fondo più ne siamo e più paghi… meglio è. Sarcasmo a parte, c’è da chiedersi a quante altre cadute fragorose potremmo assistere in un torneo più esteso. Mancano quattro anni, ma il mondo progredisce, lo fa velocemente ed il calcio con esso. Giappone e Corea non possono più considerarsi cenerentole, e molti altri paesi hanno intrapreso ambiziosi progetti (USA su tutti). Guai, dunque, a rimanere fermi, il futuro va aggredito ed il rischio di ritrovarsi indietro è concreto.

Gennaro Albolino

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